Il fascino dei reietti della società e quello del maschio bello, sfrontato e dominatore s'intrecciano nella narrativa di Jean Genet in modo inestricabile. In Pompe funebri, una delle sue prime opere, tale unità si presenta nel modo più paradossale, in quanto, nell'evocazione del ragazzo amato, Jean D., giovanissimo partigiano ucciso nei giorni della liberazione di Parigi dall'esercito tedesco, nell'estate del 1944 (proiezione d'una persona veramente amata da Genet, Jean Decarnin), col ricordo e col lutto si fondono le fantasie erotiche più fiammeggianti, popolate proprio dai nemici del ragazzo morto, e soprattutto dal bellissimo Erik, carrista tedesco biondo e splendido nella sua uniforme d'un nero notturno, da un ladruncolo volontario nella Milice, Riton, tipica figura del voyou parigino duro e sfacciato, col ciuffo ribelle che esce dal basco azzurro messo di sghembo, e da Paulo, fratello delinquente del defunto. L'ardore omosessuale è ossessivo e pervasivo, e s'incarna anche in varie altre figure, talune appena accennate; come in un film surrealista, il montaggio delle immagini e dei ricordi è disordinato, pieno di scarti, perfino illogico e contraddittorio; la narrazione spesso all'improvviso scivola dalla terza alla prima persona; e una vicenda - il funerale della bimba della servetta - punteggia con tono acido e beffardo le vicende maggiori. Ma Genet non si ferma qui: un po' come Tarantino in Inglorious Basterds, mette in iscena perfino un Hitler tutto suo, che si fa sodomizzare proprio da Paulo, il delinquentello e gigolo parigino. Le pagine di lirismo erotico spesso infuocato e vertiginoso suonano molto incisive: certo, la concezione che ha Genet dell'omosessualità può essere unilaterale quanto si vuole; ma laddove questa si sfoga in una prosa poetica che è insieme aspra e ricca di sfumature e risonanze, rimane ancor oggi piena di fascino. Ritengo anzi che questo Genet, meno narrativo e più evocativo, sia anche quello più attuale.