Siamo a Catania, nella notte del 13 gennaio 1939. Filippo, un giovane sarto, è a casa, occupato a cucire, quando sente bussare alla porta.
La madre va ad aprire: sono due poliziotti. Chiedono di suo figlio, lo arrestano.
Inizia così la più ampia retata di omosessuali attuata dalle autorità fasciste.
E, cinquant'anni dopo, sarà proprio Filippo la "guida" di Gianfranco Goretti, uno studente laureando, nel lavoro di ricostruzione degli eventi e dell'ambiente di quell'epoca, ora pubblicato insieme a Tommaso Giartosio nel libro La città e l'isola - Omosessuali al confino nell'Italia fascista (Donzelli, Roma 2006).
L'intervento repressivo che investì e decimò gli "arrusi" catanesi, poi confinati nell'Isola di San Domino delle Tremiti, si inquadra in un più vasto programma di sistematica segregazione, intensificatasi soprattutto dopo le leggi razziali e "svolta nel massimo silenzio", al quale "contribuirono anche le vittime".
Un silenzio persistente, che con il trascorrere dei decenni è diventato quasi assordante. Infatti, negli anni Settanta, quando l'Archivio Centrale dello Stato aprì alla consultazione i fascicoli di migliaia di confinati, che vennero studiati per documentare l'opera
repressiva del regime, "si decise di lasciare i casi di confino politico per omosessualità nell'ombra discreta degli schedari".
Commentano Goretti e Giartosio:
"La necessità di tutelare gli interessati dimostrava che, se il fascismo era caduto, la discriminazione di cui esso era causa e sintomo godeva ancora di ottima salute".
I due autori, con la loro ricerca di archivio integrata da testimonianze dei protagonisti, restituiscono invece alla memoria civile la storia occultata di una Italia "stregata dal fascismo", di un contesto provinciale ipocrita e spietato che ha ferocemente perseguitato i suoi cittadini "fuori norma".
Di applicare a Catania questa norma ideologica
"rudemente e retoricamente ancorata ad una visione statica del maschile e del femminile"
viene incaricato il questore Alfonso Molina, l'inquisitore laico che con "una pervicacia quasi sadica" gestisce la crociata omofoba, accanendosi in una maniacale "mappatura" di "invertiti congeniti" e "pervertiti acquisiti", "pederasti attivi" e "passivi".
"E' stata un'infamia colpirmi così, proditoriamente, per darmi la morte morale",
protesta nei verbali Giambattista 'a Sdisicata, insegnante.
"Mi forzai di andare a donne ma non vi riuscii ed ero attratto dagli uomini",
confessa nel corso dell'interrogatorio Agatino 'a Placidina, 42 anni, domandando candidamente, ma anche con notevole buonsenso:
"Perché castigarmi? Forse scontata la pena posso guarire?".
Michele, impiegato trentenne, chiede di essere liberato dal sequestro citando il padre:
"Mi aspetta ogni giorno perché gli è stato detto che sono stato richiamato sotto le armi - per non ucciderlo con la verità".
Luigi, marmista, denuncia la solitudine dettata da un violento controllo sociale:
"In paese ci tenevamo lontani l'uno dall'altro per evitare delle mortificazioni".
Altri testimoniano stupri subiti dai cosiddetti "uomini normali".
Lo scultore Raimondo, dall'isola, lamenta che
"il cervello si ottunde e ogni senso artistico annega miseramente".
Leonardo 'a Francisa, ventunenne, scrive al ministero:
"E' da otto mesi che sospiro la libertà tutti i giorni, in tutte le ore, in tutti i momenti. E io quale delitto, quale male ho commesso? Di quale reato, di quale scandalo mi si può incolpare?
Confinato per cinque anni! Cinque lunghissimi anni! Mi viene d'impazzire al solo pensarci".
Nessuno ha raccolto le loro voci, che risuonano adesso nelle pagine di questo libro come un'eco lontana di una esclusione che ancora oggi, in regime formalmente democratico, qualcuno vorrebbe riproporre e imporre.