recensione diStefano Bolognini
I confini dell'eros
I confini dell'eros ricostruisce
"la concezione ufficiale per la Venezia del Rinascimento di ciò che era sessualmente inaccettabile con tutte le sue contraddizioni interne e le sue complessità".
È il matrimonio, un contratto che permetteva l'acquisizione o la perdita di status, "il luogo principe della sessualità normale".
L'istituzione, che ha un valore meramente economico, era comunque debole, tanto che non riusciva ad imbrigliare in toto la sessualità.
Per questo, in soccorso al matrimonio accorrevano la morale, la tradizione e l'onore, che creavano una netta linea di demarcazione fra lecito e illecito.
L'illecito, relegato ai confini della sessualità, e rappresentato da adulterio, fornicazione, stupro e sodomia, mette in pericolo il matrimonio e per questo subisce il controllo della Giustizia.
Tale confine non è da considerarsi indelebile, ma è (e qui sta la complessità degli studi in sessualità) dinamico, tanto che ciò che era considerato reato sessuale per una classe non lo era per l'altra, oppure (ed il testo offre numerosi esempi in merito) l'età o il sesso dell'inquisito rendevano la pena per tali reati sensibilmente differente.
È nel sesto capitolo che l'autore indaga la condanna contro la sodomia (intesa come rapporto anale tra uomo e uomo, uomo e donna o uomo e animale) che emerge dalle fonti giudiziarie venete che richiamano sovente la distruzione biblica di Sodoma.
Venezia considera il reato una vera e propria minaccia che avrebbe potuto
"distruggere le organizzazioni su cui era fondata la società - la famiglia, l'unione tra uomini e donne e la procreazione - che costituivano il cuore della coscienza sociale. Sicuramente la fornicazione con monache offendeva Dio, ma la Sodomia disintegrava la società con o senza la sua ira"
e questo spiega la vera e propria
"paura di questo reato che traspare dalle fonti e la veemenza con cui era colpita e condannata".
La pena per i sodomiti era il rogo.
L'autore prende in considerazione numerosissimi processi per sodomia, come quello del 1348 a due servitori Pietro di Ferrara e Giacomello di Bologna che dividevano il letto, cosa non rara nella società di quel tempo.
Pietro sotto tortura dichiarò di aver avuto rapporti sessuali più volte con Giacomello e di aver eiaculato fra le cosce di lui ma senza penetrazione anale.
Giacomello, sempre sotto tortura, dichiarò di aver rifiutato molte volte le proposte dell'altro. La confessione di Pietro di relazioni innaturali e il suo presunto ruolo attivo gli costarono la vita. Fu bruciato vivo tra le colonne di giustizia al Palazzo Ducale.
Dalle fonti emerge un'attenzione dei giudici per la premeditazione del reato.
I "Signori di notte" (la magistraturea competente del reato, nel Trecento), infatti, spiegavano le azioni dei sodomiti con una frase che atto giudiziario dopo atto giudiziario si ripete:
"Istigato da spirito diabolico e rifiutando tutto l'Amor di Dio con volontà e premeditazione commise questi peccati contro natura".
Questo stile forense, dai toni retorici robusti, era un utile supporto alla gravità della pena.
La pena per i sodomiti, nel 1445, fu oggetto di un dibattito del Consiglio dei Dieci, durante il quale si valutò un modo per rendere l'esecuzione della condanne meno dolorosa, tenendo presente che comunque l'esecuzione doveva garantire la salvezza dell'anima del condannato.
Fu fatta presente la necessità di abbandonare, sull'esempio di quanto faceva la maggioranza degli altri stati italiani, la prassi di bruciare vivo il condannato, in modo che l'anima, a causa della disperazione provata dal condannato, non fosse destinata alla dannazione.
Le proposte portate nel dibattito (come, ad esempio, strangolare il condannato) non furono però accettate dal Consiglio. Venezia fu così tra gli ultimi stati italiani ad adottare la prassi di impiccare o strangolare i sodomiti prima di bruciarli.
L'autore postula una recrudescenza del controllo della sodomia nella Venezia rinascimentale a partire dal 1458, quando il Consiglio dei Dieci, che era nel frattempo succeduto ai "Signori di Notte" come organo di controllo della sodomia, introdusse una legge atta a contenere il reato
"tramite una sorveglianza più stretta ed un numero maggiore di pattuglie assegnate specificatamente a tale compito".
A p. 191 il testo accenna poi al caso della masturbazione reciproca fra un nobile ed un orefice. Anche la masturbazione era considerata una pratica contro natura, che però era trattata con una certa clemenza.
Il testo cita anche altri casi numerosi casi interessanti di sodomia eterosessuale o con animali.
L'autore fornisce, infine, numerose prove sull'esistenza di una sottocultura gay nella Venezia del Rinascimento.
Gli omosessuali veneziani condividevano alcuni luoghi di incontro precisi (barbieri, farmacie e scuole) che, se scoperti dalle autorità, venivano chiusi; e nel corteggiamento (simile a quello eterosessuale) i nobili godevano di un certo vantaggio.
Spesso, infine, i rapporti che sfociarono in un processo per sodomia e in una condanna al rogo erano nati dalla violenza.