Kill the Beat Generation

19 marzo 2014

Bisogna ammettere che Daniel Radcliffe ha saputo fare le scelte giuste per affrancarsi con decisione da Harry Potter, il maghetto, radioso per troppe virtù, che gli ha dato fama. Dapprima si è mostrato nudo su un palcoscenico londinese in Equus, testo di culto del teatro anni Settanta e vicenda di un adolescente decisamente diverso da quello immaginato da J. K. Rowling, causa sessualità assai ambigua. Poi si è sobbarcato il ruolo, non certo più facile, di protagonista nella miniserie Appunti di un giovane medico (A Young Doctor’s Notebook), il cui carattere grottesco è garantito dalla firma di Michail Bulgakov, essendo ispirato al suo autobiografico I racconti di un giovane medico.

Ora Radcliffe torna a sdegnare ogni candore infantile con Kill Your Darlings, cui in Italia si è premesso un Giovani ribelli che ricorda nella sua banalità almeno altri dieci film. Non vi è però motivo di essere troppo severi con i distributori italiani, perché tutto sommato il film ne ricorda altri venti. L’esordiente John Krokidas e il poco più ferrato Austin Bunn sceneggiano un lavoro su una generazione di scrittori tra le più affascinanti e innovative che si siano mai viste, eppure riescono a disperdere ogni specificità del caso producendo alla fine nient’altro che uno dei tanti film su, appunto, dei giovani ribelli. I quali, come tanti altri giovani ribelli, non sanno far di meglio che parlare per assiomi e inseguire una rivolta dalla parvenza velleitaria. Nonostante momenti convincenti e una buona confezione formale, Krokidas consegna un film ripetitivo, con meno sostanza di quanta era lecito aspettarsi ed essenzialmente tedioso.

Soprattutto perché ricorre a macchiette invece che a personaggi. Ben Foster imita bene il vocio strascicato di Burroughs, ma il suo personaggio è solo un pusher elegante che pubblicizza pregi e difetti di ogni sostanza con l’affabile distacco di un venditore di bibbie ateo. Allo stesso modo, il Kerouac di Jack Huston emerge semplicemente come un qualsiasi pessimo fidanzato, mentre il suo talento è solo ripetutamente dichiarato dagli altri ma non dà sostanza alla vicenda. Il Ginsberg di Radcliffe è più convincente di quello di James Franco in Urlo, ma è il ritratto di un ragazzo qualunque che voglia fare il poeta. Il più riuscito rimane così il Kammerer di Michael C. Hall (già protagonista di Six Feet Under, oltreché di Dexter).

Vero è che nel periodo rievocato dal film (i cui fatti principali si svolgono nel 1944) erano tutti giovani o comunque alle prime armi in fatto di letteratura. Tuttavia, anche rimanendo su questi primi anni un po’ turbolenti della vita di Ginsberg, anche trascurando tutto ciò che ne è seguito, e persino laddove se ne volesse solamente approfondire il rapporto con Lucien Carr, ci sarebbe stata assai più carne da mettere sul fuoco che non questa girandola di isteriche insofferenze postadolescenziali, tra incursioni proibite in biblioteca, verbosi vagheggiamenti di un’Arte con la maiuscola e instabili passioncelle. Basta leggere i diari di Ginsberg dell’epoca (pubblicati col titolo The Book of Martyrdom + Artifice) per capire come il suo rapporto con Carr fosse molto più complesso, consapevole e critico, senza contare la sofferta elaborazione della propria omosessualità con la quale Ginsberg era allora alle prese e che emerge solo slavata nel film, come ogni altra cosa.

L’impressione è che Krokidas e Bunn abbiano puntato sugli aspetti più scenografici e più facili, facendo affidamento sul fatto che lo spettatore sappia di chi si sta parlando e quindi possa colmare da solo il non detto, anziché far leva sui lati più problematici e originali ma meno adeguati alla retorica risaputa dell’insofferenza giovanile. Ci si accontenta così di ripetere, confezionando un Gioventù bruciata + L’attimo fuggente + Maurice rinunciando di fatto a graffiare e facendo un pessimo servizio a una generazione che invece un segno, e anche profondo, l’ha lasciato (al punto che a mio avviso il miglior film sulla Beat Generation, l'unico che ne colga a fondo lo spirito e la potenza visionaria, rimane Il pasto nudo di Cronenberg). Le invenzioni degli sceneggiatori vanno in questa direzione: Ginsberg – apprendiamo dal suo diario – conobbe Kammerer in un bar dell’università mentre serviva ai tavoli. Troppo prosaico: meglio inventare una scena in cui un Ginsberg in cerca di vati è condotto da Carr a berne affascinato l’eloquio mentre pontifica a casa sua davanti a una platea di giovani ammiratori.

Quando poi Krokidas ricorre al montaggio alternato (come gli avranno insegnato a scuola) per far convergere il ritorno tra le mura domestiche di Kerouac, lo sfogo sessuale di Ginsberg con un tizio qualunque rimorchiato per compensare il rifiuto di Carr, e l’omicidio commesso da quest’ultimo, sigla al contempo la punta più ardita cui si spinge il suo film e la sua massima ovvietà. Il problema è che la prima si riduce a Radcliffe che, da perfetto antidivo, di nuovo accetta di spogliarsi e di lasciarsi riprendere senza veli a letto con lo sconosciuto: peccato che la scena trasudi decadenza meramente autodistruttiva (lo sguardo affranto e assente sotto la doccia subito dopo è eloquente) quanto quella del nevrotico omosessuale Kammerer che si fa uccidere dal nevrotico eterosessuale ambiguo Carr.

Ma Harry Potter in versione beat di questi tempi non mi pare sufficiente a giustificare un’ora e tre quarti che potevano essere meglio spesi, magari a leggere qualcosa di quel pusher elegante che firmò tra l’altro Il pasto nudo, di quel pessimo marito che ci ha lasciato Sulla strada, o di quel figlio un po’ scapestrato il cui Urlo ha segnato un momento di svolta anche nella nostra cultura. Magari anche solo per leggere The Neurotic Personality of Our Time, il primo esperimento di romanzo in cui Ginsberg rievoca appunto la sua amicizia con Carr, dal loro primo incontro sino all’omicidio, lasciando spazio alle proprie fantasie sull’amico e con maggior trasgressività e immaginazione di quanta qui ne dimostrino Krokidas e Barr. I quali peraltro sembrano essersi ispirati proprio più a The Neurotic Personality of Our Time che ai fatti, a dispetto dell’intenzione di fare un film biografico, con tanto di cartelli finali per farci sapere chi ha fatto cosa.

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