recensione diMauro Giori
Il ballo delle checche
Questo romanzo goduriosamente delirante, scritto nel 1977, è una delle opere più conosciute di Copi, disegnatore di fumetti e drammaturgo oltreché prosatore.
L'autore presta nome e professione al protagonista del romanzo, che rievoca la difficile relazione con Pierre, un giovane romano bellissimo e "idiota niente male", rozzo (tanto che Copi perde tutti i suoi amici, perché nessuno lo sopporta) e insignificante (tanto che nessuno degli amici di Copi se lo ricorda dopo morto). E per di più è frigido, minidotato e si lascia toccare sempre più raramente.
Ma Copi ne è innamorato perso e ne sopporta tutte le manie, da quella di diventar donna a suon di ormoni fino al trip mistico-orientale prima, cattolico poi. E ne sopporta anche le infedeltà. Pierre infatti si innamora di una perfida attricetta fallita che vive imitando Marilyn (lui non sa nemmeno chi sia Marilyn: suo padre è morto in un incendio a Cinecittà, sua madre in un incendio in un cinema, quindi lui del cinema non ne ha mai voluto sapere nulla). Anche se Marilyn "sembra un vecchio culatone", si sposano pure, a New York, per lavorare lui in un locale di checche portoricane, lei in uno di lesbiche giapponesi. Ma Pierre poi torna da Copi, per lasciarlo ancora, per tornare ancora.
Anche Copi finisce con lo sposare Marilyn, che ha pure una madre veggente la quale, siccome il marito fa il panettiere, invece di intrugli e pupazzetti per cambiare il destino rifila croissant alla mandragola e, se non bastano, apotropaiche farcite di mele, a seconda di cosa le suggerisce la sua sfera di cristallo a pile.
Lo stile molto personale di Copi, fatto di periodi brevissimi e lapidari, rende la sua satira ancora più pungente, quando non perfida, e la sua caricatura più paradossale. Il tono infatti appare immutabile e sempre distaccato, e non cambia di un millimetro quando descrive banalità quotidiane e quando disegna gli scenari più deliranti e sovraccarichi, drammi paradossali privati di qualsiasi compassione e descritti con travolgente serietà, in un crescendo rossiniano di deliri fantasiosi dai rintocchi macabri, come quando Copi deve lottare contro il serpente di Marilyn (capace pure di consegnare la posta), o quando uno squalo divora i tre ragazzini figli di hippy che Copi stava allevando, o ancora quando Copi cede al ricatto di una checca masochista e la fa a pezzi (letteralmente, con tanto di criceti al forno). E che dire dell'ombelico di Pierre, tanto profondo da essere penetrabile, sia "tradizionalmente" che tramite fist fucking?
Il numero dei morti cresce di pagina in pagina e non importa che a un certo punto si risalga dalle profondità dell'incubo, disegnato con quintali di humour nero, fino a riveder le stelle, come nel maggio parigino dopo la strage delle checche lessate in sauna. Perché si risale non per rinnegare o sconfessare il delirio (l'idea più scioccante è infatti riservata per il finale), ma solo per risprofondare in un nuovo scenario surreale, ad esempio con l'ultima crisi mistica di Pierre, che dopo esorcismi e stigmate ora vuole cambiare sesso per farsi carmelitana e ha mezzo Vaticano dalla sua, a partire da un manipolo di suore invasate, sicché Copi si ritrova piantonato in casa dalle guardie svizzere.
L'(auto)ironia di Copi sa essere crudele anche con poco: per demolire l'imitazione della Garbo fatta dalla fu Marilyn, gli basta sottolineare che parla "con l'accento di Maurice Chevalier" (davanti una tazza di cocaina che sniffa a cucchiaiate).
Ma le idee pungenti non si contano, come la folgorazione del masochismo militante:
Ecco la mia proposta: in questo romanzo sarò un masochista. Diciamo che l'ho scoperto nel 1965, quando ho incominciato a vivere pubblicamente da omosessuale dopo averlo fatto di nascosto per parecchio tempo. Il masochismo mi si rivelò come un'omosessualità in più o di riserva. Fino ad allora avevo vissuto l'omosessualità come un vizio, una volta resa pubblica diventava quasi una virtù, mi rifugiai nel masochismo.
Un romanzo brillante, divertente e disintossicante.