recensione diMauro Giori
I flashback sono una questione di morale
Liliana Cavani cerca di rappresentare il nazismo sintetizzandone l’essenza in una serie di perversioni sessuali. Lo fa scopiazzando l’idea sulla quale Visconti aveva basato cinque anni prima La caduta degli dei (da cui provengono i due protagonisti, Dirk Bogarde e Charlotte Rampling). Lo sottolineo non per amore di Visconti, perché questa scelta è il più grande errore che gli possa essere rimproverato. Lo dico solo, oltreché per amor di precisione storica, per sottolineare che la Cavani non ha nemmeno il merito dell’originalità, e anzi ha la colpa di essere recidiva.
Al centro della vicenda vi è il rapporto sadomasochista che, nel dopoguerra, lega un ex nazista e la sua ex vittima, scampata al lager, quando si ritrovano per caso in un albergo dove l’uomo lavora come portiere. La donna è assalita dai ricordi e ricade preda dell’amour fou che ai tempi l’aveva legata al suo carnefice. Lascia quindi il marito (un direttore d’orchestra) per farsi incatenare e torturare nuovamente dall’uomo.
Nell’albergo sono nascosti altri ex nazisti, e altri ancora vi si ritrovano per le loro attività segrete. Il portiere fa servizi a tutti, tanto che pare la maîtresse di una casa chiusa per ex gerarchi che non hanno perso i loro vizietti. Procura così una marchettina per la contessa capricciosa; assiste ai balletti di un ex commilitone effeminato ed esibizionista (in un flashback si esibisce in costume adamitico per i suoi compari in divisa), il quale è evidentemente invaghito di lui; fornisce la sala per le riunioni ad una combriccola di ex nazisti che con una fumosa terapia di gruppo stanno in realtà cercando di eliminare le tracce del loro passato. Il problema sorge dal fatto che l’amante del portiere è una testimone pericolosa da eliminare, ma il portiere si oppone perché, nel suo modo malato, è innamorato.
Il successo procurato al film dalle polemiche, seguite all’assalto della censura e della magistratura per certe scene troppo scabrose, ha dato la stura a ulteriori imitazioni (a partire da Salon Kitty di Tinto Brass) e ha sollevato il fior fiore della cultura dell’epoca a difesa della regista. Mai battaglia fu più sprecata. Il portiere di notte presenta infatti gli stessi problemi culturali del film di Visconti, conseguenti all’aver scelto di sintetizzare un fenomeno complesso come il nazismo in un’allegoria erotica non solo banale, ma anche ideologicamente vile. È infatti troppo facile fare i progressisti e gli indignati giocando con la pelle degli altri: quanto meno, Visconti giocava con la propria, anche se non era del tutto consapevole delle implicazioni delle sue scelte.
Se già rappresentare il nazismo e la sua ascesa in forma di erotismo, come aveva fatto Visconti, rischiava di assecondare uno storicismo superficiale, culturalmente condizionato da letture psicoanalitiche retrive e approvato tanto dall’ideologia conservatrice quanto da quella di sinistra (allora ugualmente omofobe, dove l’allora è un ancoraggio storico necessario, ma non implica che oggi le cose stiano diversamente), rappresentare nella stessa chiave i nazisti riciclatisi nella società postbellica risulta ancora meno convincente, più gratuito e più forzato. L’idea che si trattasse di malati irrecuperabili, che tale malattia si manifestasse nelle loro peculiarità sessuali, e che fra queste peculiarità fosse da annoverare l’omosessualità aveva già fatto il suo tempo.
La scena più disturbante è rappresentata da un flashback del portiere in cui ci viene mostrato un nazista che sodomizza quello che si direbbe un commilitone (che gradisce, tanto da masturbarsi) sotto gli occhi di un gruppo di internate terrorizzate dalla scena. Nel frattempo, il protagonista sopraggiunge a prelevare la sua slave per un’altra seduta della loro relazione sadomaso. Viene stabilita dunque un’equivalenza fra le due attività (sodomizzare/torturare) e il lager è rappresentato come un grande serraglio in cui si può sfogare ogni sorta di abuso sessuale.
Ma c’è di peggio: la regista, animata da evidente convinzione, torna per due volte sulla scena con i suoi lenti carrelli. Ora, non sono mai stato un francofilo, né un cultore della Nouvelle vague e delle teorie critiche che le hanno preparato il terreno, ma credo che Godard non avesse tutti i torti quando diceva che i carrelli sono una questione di morale. Al confronto di questi del Portiere di notte, quello di Kapò che Rivette furiosamente aveva giudicato indecente (perché abbelliva una sequenza raccapricciante) è una sciocchezza. Ma la squadra di allora dei «Cahiers du cinéma» non l’avrebbe certo mai scritto: conservatori, cattolici e omofobi, non sarebbero mai stati disturbati da questa sequenza quanto dal senso del decoro di un regista di sinistra. Ma il loro insegnamento ha un suo valore e una sua pertinenza, in questo caso pienamente verificata.
Ma c’è di peggio: i carrelli sono accompagnati dalle note del Flauto magico, allestito dal marito “normale” della donna masochista. Il portiere è a teatro e sta seguendo l’esecuzione, sicché la musica si prolunga lungo tutto il flashback (e ancora in un altro successivo, questa volta della donna). Immagino che Wagner fosse troppo inflazionato. Dovremmo vedervi un’altra grande metafora, quella della neutralità dell’arte rispetto alle miserie storiche dell’uomo? Un modo per sottolineare quanto sono debosciati questi nazisti incapaci di godere del bello, che anzi deteriorano come ulteriore stimolo per le loro bassezze? Il meglio e il peggio che la cultura tedesca ci abbia offerto negli ultimi trecento anni? Dovremmo forse essere sedotti dal contrasto tra il massimo dell’espressione umana e il suo minimo, ovvero tra la sublimazione e la consumazione?
Ma non c’era stata di mezzo una rivoluzione sessuale? E una nuova sinistra? E una rivolta giovanile? Doveva essere davvero passato tutto come l’acqua sui sassi se una delle poche registe donna con una certa posizione nell’industria, dopo il Sessantotto e in tempi di riorganizzazione del femminismo, poteva millantare un film ultraconservatore e sessuofobo, in piena sintonia con il riflusso dell’Italia dell’epoca, come una romantica storia d’amore (perché questa è l’essenza delle sue dichiarazioni pubbliche in difesa del suo film).
Ma forse la scelta di Mozart doveva sedurci per la sua sola dissonanza rispetto alla violenza perpetrata nelle immagini. Un portentoso, allegorico ossimoro per condannare la bestialità e schiacciarla con il sublime mozartiano. Ma nel 1974 era già una banalità. Kubrick aveva accompagnato l’utraviolenza dei drughi con Rossini tre anni prima e in qualsiasi porno dell’epoca la musica classica accompagnava evoluzioni disarticolanti che nemmeno il kamasutra osava contemplare. Ma probabilmente queste cose Liliana Cavani non le guardava: allora si faceva un gran discutere sugli intellettuali capaci di fare erotismo, tutti schierati contro i bestioni che facevano pornografia. Ma non si diceva nulla degli intellettuali che facevano pornografia, convinti di fare erotismo.
Nemmeno il paragone con Visconti può essere una giustificazione: ugualmente sbagliato nei suoi assunti, La caduta degli dei è comprensibile nel quadro del trentennale percorso del regista, a suo modo coerente e capace talora di estremo coraggio, ciò che non si può dire per Liliana Cavani. Né varrebbe metterlo in relazione con il Salò di Pasolini: anche quando era discutibile, Pasolini fondava il suo lavoro su riflessioni e consapevolezze per Liliana Cavani impensabili.
È semplicemente un film con infamia e senza lode.